Dal capitolo “Il Po e la libertà” del mio libro Fatti d’arme e condottieri in Lomellina. Duemila anni di battaglie
Parte seconda (e ultima)
Nei secoli successivi chi parlerà ancora della liberazione del cardinale sulle rive lomelline del Po?
« Nel XVII secolo segnaliamo il pittore barocco Giovanni Carlo Saraceni, il bolognese Pompeo Vizzani e il pavese Anton Maria Spelta, che cita Guicciardini, Giovio e Vasari descrivendo però l’evento come un’impresa eroica. I personaggi nobili sono avvicinati a “novelli Ercoli e arditi Marti”, mentre l’autore coinvolge anche il nobile Gentile Beccaria, casata che nel 1602, quando scrive lo Spelta, aveva da decenni perso il posedimento a favore degli Isimbardi, feudatari di Cairo dal 1467. Poi ci sono Gonzalo de Illescas, Scipione Ammirato, Giovan Battista Pietragrassa, Antonio di Paolo Masini e lo storico alessandrino Girolamo Ghilini. In ambito artistico, Giovanni Stefano Danedi, detto il Montalto, affresca il salone di palazzo Isimbardi, a Cairo, su commissione del marchese Pietro Isimbardi. A noi è pervenuta una versione restaurata nel 1931, che potrebbe aver perso alcuni dei suoi caratteri originali.
Verso la fine del Seicento le versioni di Antoine Varillas (1624-1696) introducono alcune interessanti novità. Nel 1683 lo storico francese parla di un coinvolgimento di un certo Renault Lallo, dall’identità sconosciuta ma probabile storpiatura di Rinaldo Zatti, mentre quattro anni dopo presenta una storia segreta dei Medici in cui, ispirandosi comunque a Giovio e a Guicciardini, descrive il fatto con nuovi dettagli. Per la prima volta si parla di ostaggio e di un riscatto così alto che il papa non riesce o non vuole pagare, ma è citata anche l’emissione di un breve, documento pontificio (litterae apostolicae) meno solenne della bolla, che conferisce al de’ Medici il potere di assolvere dalla scomunica i soldati francesi, rilasciando certificati ad hoc, a condizione che promettano di non voler più combattere contro la Chiesa e che versino un obolo.
Nel 1756 lo storico lomellino Luigi Portalupi definisce la liberazione del cardinale una “prodigiosa avventura” che rende orgogliosi i pievesi. L’impianto della narrazione ricalca sostanzialmente quella del Giovio. De’ Medici, che alloggia nel pubblico albergo e non genericamente in paese, implora aiuto all’abate Buongallo e, al momento dell’imbarco, finge un bisogno corporale facendosi “calare dalla mula”. A differenza degli autori precedenti, Portalupi accenna a uno scontro a fuoco fra i seicento soldati francesi e i quattrocento uomini al comando di Zatti: le truppe di re Luigi XII devono lamentare numerosi soldati “uccisi a moschettate” e altrettanti tanti messi in fuga, mentre fra i “contadini niuno fu morto e a gran pena alcuno ferito”. Inoltre, l’abate Buongallo libera il cardinale prigioniero dei Malaspina, aiutandolo a calarsi con una fune dalla colombaia. L’autore lomellino sarà anche il primo a far riferimento alla concessione del giubileo da parte di Leone X. Otto anni più tardi, Ludovico Antonio Muratori individua il luogo di attraversamento del Po: alla Stella o a Bassignana. I contadini protagonisti della liberazione sarebbero stati “villani del Caire guadagnati la notte dai familiari del cardinale”. Nel xviii secolo dell’argomento s’interessano anche l’abate veneziano Giuseppe Piatti, Carlo Denina, l’abate Girolamo Tiraboschi, Marc Antoine Laugier, il frate Filippo Angelico Becchetti e don Angelo Fabroni.
Arriviamo così al XIX secolo, periodo in cui sono rinvenuti documenti inediti. Nel 1815 Carlo de’ Rosmini pubblica per primo la lettera del da Porto sulla liberazione del cardinale e attinge all’archivio Isimbardi a Milano, in cui si trovano documenti in gran parte inediti. L’autore di Rovereto precisa che la scorta francese è di cinquanta arcieri armati e parla dell’abate Bongallo, di Rinaldo Zazzo, “cittadino pavese che un tempo era stato soldato”, e di Ottaviano Isimbardi, “signore del luogo”. Durante il passaggio del Po, il cardinale è abile nel disorientare i francesi che lo attendono sul porto natante, favorendo l’assalto dei contadini pievesi, che, “scoperte d’improvviso e sguainate le spade”, tagliano le funi del traghetto e spingono i nemici al centro del fiume, dove la corrente è più forte. Rosmini accenna anche alla bolla pontificia, che si troverebbe conservata nell’archivio milanese degli Isimbardi. “È evidente che il Rosmini è molto benevolo verso la nobiltà milanese, di cui la famiglia Isimbardi è degna rappresentante, e vedremo che proprio questa ‘reverenza’ condizionerà non poco anche molti altri storici dell’Ottocento che scriveranno su questa vicenda”, scrive Angeleri. Nella narrazione di Rosmini sono inseriti sia gli affreschi del Vasari in Palazzo Vecchio sia quelli di palazzo Isimbardi di Cairo con la relativa iscrizione latina, oltre ai benefici per Rinaldo Zazzi e Ottaviano Isimbardi, salvatori del futuro papa.
Nel 1836 Goffredo Casalis, nella pagina relativa a Cairo, si sofferma in modo circostanziato sulla vicenda. De’ Medici era stato nominato legato dell’esercito pontificio e spagnolo “per mettere gelosia nel governo di Firenze”. Giunto prigioniero a Pieve del Cairo, il cardinale è aiutato dal suo segretario, l’abate Buongallo, che coinvolge Rinaldo Zatti, “già capitano al servizio ora di Spagna”, e del marchese Ottaviano Isimbardi, che però non può avere il titolo marchionale, assegnato a Lorenzo Isimbardi solo nel 1610. Rispetto agli autori precedenti, Casalis introduce la novità degli abitanti di Cambiò, di cui parleremo alla fine di questa lezione. Il giorno in cui si decide il passaggio del Po de’ Medici finge di essere assalito da una colica, mentre i pievesi balzano fuori dai boschi uccidendo un buon numero di francesi e costringendo altri a fuggire sulle barche. Nessun pievese troverà la morte nel breve fatto d’armi. Il cardinale, che riceve da Isimbardi una “militar casacca”, si fermerà alcune ore a Cairo prima di passare il fiume ed essere accolto nel castello di Bernardo Malaspina, “situato nel dominio genovese”. Anche Casalis segnala la seconda prigionia del cardinale, trattenuto in una “meschinissima stanza” e poi liberato da Malaspina dopo aver ricevuto l’autorizzazione da Trivulzio (“Triulzi”). Una volta sul trono di Pietro, de’ Medici assegnerà a Rinaldo Zatti il feudo della Genga, paesino del Maceratese.
Nel 1846 Giovanni Tagliacarne si occupa di “una delle più gloriose intraprese dei Lumellini”. È inequivocabile il pathos con cui lo storico pievese tratta di un fatto che coinvolge la sua comunità, anche considerando che a Cairo suo nonno era il factotum di casa Isimbardi. Un protagonista inedito è il parroco di Pieve del Cairo, don Giacomo Antonio Laboranti, che l’abate Buongallo incontra all’uscita dell’albergo dove era alloggiato il cardinale e che fa da tramite per abboccare Zatti, definito “vecchio nobile capitano di milizie dette di ventura”. Tagliacarne, inoltre, introduce le figure di Anteo Beccaria, e non Gentile, e di un fantomatico chierico, e precisa che “militi e oppidani di Cairo e della Pieve” faranno “un completo macello dei francesi”. Infine, deplora il pessimo stato di conservazione degli affreschi di palazzo Isimbardi ».
Un autore ottocentesco, Ravasio, fornirà gli spunti agli storici successivi introducendo anche figure inedite. Professore, ci può ragguagliare su questa versione?
« Nel 1887 Pietro Ravasio produce documenti inediti come la copia autentica, datata 15 aprile 1765, della bolla di Leone X, ed esalta la famiglia Isimbardi. Nella sua ricostruzione il convoglio francese arriva a Pieve del Cairo la sera del 3 giugno, quando il prigioniero e la sua scorta sono accolti a casa di Gentile Beccaria, “gentiluomo, feudatario del luogo”. Rinaldo Zatti è un vecchio uomo d’armi, cittadino pavese e possidente, che aveva militato sotto i francesi e gli spagnoli e che all’epoca è un sostenitore di Lorenzo il Magnifico. Ottaviano Isimbardi, dal canto suo, non è identificato come un nemico dei de’ Medici. Durante l’attacco ai francesi, avvenuto il 4 giugno, spunta anche Bernardino Zatti, fratello di Rinaldo, che in realtà sembra essere un parente di don Laboranti e che sarà indicato tra i beneficiari dei proventi derivanti dal giubileo. Inoltre, de’ Medici, una volta pontefice, profonderà a piene mani incarichi all’abate Buongallo (vescovo di Nepi), a Zatti (feudatario della Genga), a Ottaviano Isimbardi (capo delle guardie pontificie) e a suo figlio Marco Antonio (camerlengo, in realtà cameriere segreto, del papa). Ravasio descrive anche il quadro esistente nella sagrestia della parrocchiale di Pieve del Cairo: papa Leone x tiene in mano la bolla in cui si legge la scritta “Jubileum perpetuum pro prima dominica mensis Junii et Nativitate B. M. V. Plebis Cairi”. Ai piedi del dipinto una scritta recita: “Leo Pontifex Max. hanc collegiatam et Parrochialem Ecclesiae S. M. Plebis Cairi spiritualibus donis gratus ac privilegiis motu proprio, gratitudine signo perpetuo decoravit anno Dm. mdxvi tertio decimo Kal. 7bris. Confirmatuum anno mdxxvii die 4 Junii”. Parla anche di un altro quadro di grandi dimensioni, presente nella parrocchiale di Pieve e andato perduto.
Anche diversi autori stranieri parlano del fatto avvenuto sulla sponda lomellina del Po. Lo storico inglese William Roscoe nel 1816 ripubblica un suo libro del 1805, The life and Pontificate of Leo the Tenth, tradotto in italiano da Luigi Bossi e incentrato sul racconto di Giovio. Nel 1824 il francese Pierre Louis Guinguené, cui si rifarà il conte Pierre-Antoine-Noël-Mathieu Bruno Daru, sostiene che il cardinale “giunse a fuggire a forza di denaro nel disordine di quella ritirata”. Nel 1832 lo svizzero Jean Claude Leonard Simonde Sismondi scrive che il cardinale fu liberato da alcuni suoi amici che “sommossero i contadini del vicinato”. L’inglese Hanna D. Burdon dà alle stampe un romanzo storico prendendo spunto dal Roscoe, lo svizzero Heinrich Leo afferma in modo conciso che il cardinale fu liberato “dagli uomini del contado” e lo storico francese Jean Marie Vincent Audin scrive la sua Storia di Leone x esaltando Trivulzio. E Alfred von Reumont, storico e diplomatico che si dedicò soprattutto alla diffusione della cultura storiografica tedesca in Italia e di quella italiana in Germania, ne parla nella sua Geschichte der Stadt Rom ».
Nel Novecento chi scrive, e chi dipinge, la liberazione del figlio di Lorenzo il Magnifico dalle mani dei francesi?
« Diversi autori, nessuno dei quali però diffonde elementi originali. Il pittore medese Ferdinando Bialetti mette il marchio sulla vicenda su incarico del prevosto di Pieve del Cairo, don Gerolamo Avanza. Negli anni Trenta affresca l’intera facciata della chiesa parrocchiale di Pieve del Cairo riproducendo la concessione del giubileo e la liberazione del cardinale fra i boschi di Cambiò, riprendendo in larga parte la scena principale degli affreschi di palazzo Isimbardi di Cairo. I due affreschi, mezzo secolo dopo, saranno sostituiti da mosaici che non riproducono fedelmente gli originali.
Lo storico Giuseppe Ponte, nato a Mortara nel 1867 e morto nel 1943, e noto a Pieve del Cairo come il mäistrón, propone due versioni. Il cardinale arriva a Cambiò su un cavallo bianco a fianco del pievese Rainaldo Zazzio, che “si era riproposto di liberare l’illustre prigioniero col concorso dei suoi compaesani”. Solo l’energico assalto dei “cairesi”, che provocano una “confusa mischia di armati”, consente a de’ Medici di fuggire. Secondo l’altra versione, il cardinale arriva a Pieve del Cairo custodito da cinquanta arcieri e dorme all’albergo del Falcone. L’abate Buongallo incontra il parroco, don Laboranti, che gli presenta il capitano Rainaldo Zazzio: con l’aiuto degli armigeri dei Beccaria e degli Isimbardi, feudatari di Pieve del Cairo, il cardinale riuscirà a liberarsi raggiungendo prima Rivanazzano e poi Piacenza, fuori d’ogni pericolo.
In seguito, si occuperanno di Pieve del Cairo anche l’esperto di vini Luigi Veronelli, il pavese Mario Merlo, il vogherese Guido Guagnini e il religioso di Reggio Emilia, monsignor Angelo Mercati, che nel 1982 pubblica due documenti molto rilevanti. Si tratta di due lettere del 1531: la prima è una supplica di quattro “villani”: Giovanni Antonio della Pieve, Antonio da Frascarolo, Troiano da Voghera e Alessandro della Pieve affermano di percepire uno “stipendio” mensile di quattro ducati d’oro (cinque per Giovanni Antonio) da Leone x, perché “lo [liberassimo] di mano dei Francesi”. Lo stipendio sarà confermato, in vitalizio, da papa Clemente vii, successore del de’ Medici. La seconda rappresenta una commendatizia, cioè una classica lettera di raccomandazione, con cui Francesco Guicciardini conferma che i quattro fanno parte delle sue guardie e ne sostiene la richiesta del pagamento anticipato di una somma pari a tre anni di stipendio ».
Professore, ma precisamente dove avrebbero passato il Po il cardinal de’ Medici e i suoi salvatori pievesi? Il fiume, come sappiamo, rappresenta da secoli una linea di confine e, al tempo stesso, una dogana.
« Questa domanda ci permette di approfondire il tema di quella striscia di terra mista ad acqua che va da Borgofranco, l’attuale Suardi, a Cairo. Si tratta di una serie di località poste di fronte alla confluenza del Tanaro nel Po, che per secoli hanno costituto un’area di confine fra Stati spesso in guerra fra loro. Nella prima lezione abbiamo visto che anche il cartaginese Annibale, dopo aver respinto la cavalleria romana, avrebbe attraversato il fiume in questo punto. Da secoli, dunque, l’area viene scelta per guadare le acque del Po.
Un lavoro di pregevole fattura è rappresentato dalla ricerca di Angelo Cerri, di origini dornesi anche se nato a Pavia, che fu il mio professore di greco e latino al liceo classico “Ugo Foscolo” di Pavia. La sua ricostruzione dei porti natanti, con relativi dazi, di Cambiò e di Isola Sant’Antonio è meticolosa e capace di far rinascere un’attività gloriosa, anche attraverso le preziose testimonianze di Enrico Comaschi e del nipote Carlo, “ultimi testimoni diretti del mondo del porto” e noti per decenni con il quasi ovvio soprannome di Caronte. La secolare identità dei luoghi rivieraschi è tutta legata a questi “porti in corda”, formati dal traghetto vero e proprio, dalla cordata di attraversamento e d’ormeggio, dai due carati d’approdo e dai vari accessori. Cambiò, oggi frazione di Gambarana sulla sponda sinistra del Po, a poca distanza da Cairo, viveva attorno a questo guado, la cui notizia più antica risale al 1153: papa Anastasio IV concede il diritto “principale” di transito e di pedaggio nella zona di Sparvara-Cambiò al monastero tortonese di San Marziano. Pochi anni più tardi, nel 1164, l’imperatore Federico I Barbarossa investe dello stesso diritto i Conti palatini di Lomello, diritto confermato ancora nel 1219, nel 1311, nel 1355 e nel 1496.
Dunque, traffici commerciali, circolazione di truppe e dazi fiscali si sviluppano in questa Ixolaria lomellina, come la definì Giuseppe Ponte, stretta fra Cambiò, la scomparsa Sparvara, Isola Sant’Antonio e Alluvioni Cambiò, queste due località oggi sulla sponda destra del fiume. Da qui il cardinal de’ Medici fuggì verso la libertà accompagnato da portolani e da contadini che conoscono la zona, e le acque, palmo a palmo. Per molti secoli Cambiò è stato un minuscolo borgo abitato prevalentemente da pescatori, cui, ancora a fine Ottocento, incombeva l’onere di arricchire la tavola dei vescovi di Tortona, che godevano (e hanno goduto fino alla metà del XX secolo) del titolo di principi di Cambiò. Il porto natante si raggiungeva prendendo la strada che va da Cairo a Gambarana, e che si biforca a sinistra all’altezza della cappelletta campestre di San Rocco. Dirimpetto, sulla sponda piemontese, c’è Alluvioni Cambiò, attraversato dalla strada napoleonica “del Genovesato” che metteva in comunicazione Genova con la Svizzera attraverso il porto natante sul Po. Non a caso nel gonfalone comunale l’azzurro dello scudo e il timone alludono all’antico porto fluviale di Sparvara, centro sorto in età medievale a controllo di un punto di attraversamento del fiume e distrutto dal Po alla fine del Settecento.
Questo porto natante, dai pievesi conosciuto con il nome dialettale di porti, è rimasto in attività per secoli. Entra in crisi solamente alla fine del XIX secolo, quando il traffico si sposta più a valle, sul ponte in chiatte della Gerola. Nei primi anni del XX secolo i sindaci di Tortona, Sale, Alluvioni Cambiò, Pieve del Cairo, Suardi e Gambarana dopo alcune disastrose piene del Po cercheranno di far riaprire il porto di Cambiò alla luce della frequente interruzione del transito a Isola Sant’Antonio. L’esito, però, sarà negativo tanto che nel 1908 il consiglio comunale di Pieve del Cairo abolirà lo stanziamento di 500 lire per il porto natante di Cambiò, «non esistendo più attualmente tale passaggio ed essendo difficile che nel corso dell’anno si possa di nuovo impiantare».
Vale la pena ricordare, poi, che in questo tratto il Po, dopo aver ricevuto le acque del Sesia, cambia aspetto assumendo quelle caratteristiche che manterrà fin quasi alla foce, la prima delle quali è una forte instabilità e la tendenza a modificare il proprio corso. I centri posti soprattutto sulla riva sinistra del fiume ne hanno subìto le conseguenze più gravi a causa di rovinose alluvioni che, talvolta, hanno portato alla completa distruzione di diversi insediamenti. È questo, per esempio, il caso di Borgofranco (ingoiato da una piena del Po nel 1808 e rinato come Suardi nel 1863), che si trova, con Frascarolo, in una fascia fra il Po e l’antico alveo del Sesia e che forma una sorta di lunga e sottile isola. Il centro ha sempre rappresentato un contraltare ai porti in corda di Cambiò e di Isola Sant’Antonio, soggetti a pagamenti di dazi di varia natura. Nel Medioevo, infatti, con il toponimo “borgo franco”, s’intende la condizione giuridica di una comunità libera da dazi o con privilegi fiscali, chiamata a svolgere in alternativa prestazioni militari. Esempi significativi sono Soncino (1118, uno dei più antichi), Robbecco (1185), Villa d’Adda (1193), Castelfranco Veneto (1199), Borgo Agnello (inizio del Duecento), Serravalle Sesia (1255), Trino Vercellese e Paganico.
Secondo lo storico belga Henri Pirenne, i borghi franchi sono una realtà rivoluzionaria dell’economia feudale del XII secolo. Il primo documento in cui appare il toponimo del Borgofranco lomellino è del 1205. È sempre stata evidente la sua stretta relazione con Bassignana, situato alla confluenza del Tanaro nel Po: spesso è citato proprio come “Burgus de Bassignana”, quasi si trattasse di un avamposto a nord del Po. Non dovete dimenticare che Bassignana, sebbene posta sulla riva destra del Po, è stata parte del ducato di Milano, e dunque della Lomellina, fino alla pace di Utrecht del 1713 ».