La contessa nera, intervista di Paola Badi

L'ingresso della cascina Cerino di Semiana
L’ingresso della cascina Cerino di Semiana

 Come nasce questo romanzo?

«Da una storia che conoscevo nei dettagli: quella dei conti Carminati di Brambilla, insediatisi a Semiana, in Lomellina, fra il 1921 e il 1923. L’ho inserita come corpo principale nel noir edito da Fratelli Frilli Editori. Ho voluto far emergere una cupa vicenda di violenza e di seduzione, il cui confine è sempre molto labile nei protagonisti di questo noir». 

Quanto c’è di vero e quanto di fantasia in questa opera?

«Direi che la realtà supera ampiamente la fantasia: in percentuale, diciamo 90 a 10. Innanzi tutto, l’omicidio attorno a cui ruota il romanzo è avvenuto proprio fra le mura del castello di Semiana. Poi ci sono i personaggi e i luoghi, teatro dell’impetuosa nascita del fascismo in una delle terre più floride d’Italia. La mia fantasia ha partorito solamente pochissime figure, ovviamente per motivi di struttura narrativa: il maresciallo Pesenti, il brigadiere Massobrio e il giovane Aurelio».

 La Contessa nera è una donna veramente esistita?

«Certamente! Giulia Mattavelli era la figlia di un portalettere di Lanzo d’Intelvi, paese comasco al confine con la Svizzera. Riuscì a diventare la convivente e poi la moglie del conte Carminati e, in Lomellina, sparse il terrore e la morte fra i contadini socialisti. Dopo la Liberazione riuscì a evitare il carcere e morì a Como nel 1975 alla veneranda età di 83 anni». 

Ci vuoi parlare di questa donna così diabolica, spietata?

«Usava le grazie femminili per sedurre i ras fascisti sia locali sia nazionali. Sesso e politica, potremmo riassumere con uno slogan. Sotto le lenzuola del suo letto si decidevano strategie, spedizioni punitive, alleanze. Quando il ras mortarese Cesare Forni dovette cedere il passo a Francesco Giunta, segretario nazionale del Partito nazionale fascista, ne nacque un dissidio violentissimo, che sfociò in un duello alla sciabola. Giulia concesse i suoi favori anche a Renato Ricci, ras di Carrara, e, ovviamente, a Benito Mussolini, che in fatto di donne non si faceva pregare».

Come mai hai scelto questo periodo storico: per Giulia Mattavelli o per un altro motivo?

«È un periodo chiave della storia contemporanea italiana. In questo senso la Mattavelli è una pedina come tante che si muove sulla scacchiera nazionale. Ho voluto far riemergere – se mai ce ne fosse ancora bisogno – i drammatici mesi che precedettero la marcia su Roma e l’instaurazione della dittatura. La Lomellina era una zona cruciale per la conquista del potere assoluto da parte di Mussolini: da qui, nell’estate 1922, partirono le squadre d’azione di Forni alla conquista prima di Novara e poi di Milano».

 Che tipo di difficoltà hai riscontrato nella stesura del romanzo?

«Nessuna in particolare. Ho inserito l’omicidio in un contesto che avevo già studiato a fondo. Se di difficoltà vogliamo parlare, possiamo riferirci ai tratti caratteristici della contessa: ho lavorato, di più rispetto agli altri personaggi, sulla psicologia e sulle “turbe caratteriali” della Mattavelli, che in due anni tanto dolore hanno provocato alle famiglie semianesi».

Ho notato, rispetto “Il Brigante e la mondina”, un cambio di stile di scrittura, meno giornalistico: è stato difficile cambiare o ti è venuto naturale?

«Posso confermare che effettivamente c’è stata un’evoluzione nello stile. Non dimenticare, Paola, che quello era il mio debutto, con tutto ciò che comporta. Con la “Contessa nera” mi sono un po’ più “sciolto”, ho cercato di prestare maggiore attenzione ai dialoghi e anche alla lingua e al gergo utilizzati dai vari attori del romanzo. E poi, per dirla con un termine cinematografico, ci sono molte più scene d’azione, che nelle mie intenzioni dovrebbero rendere la narrazione più avvincente».

Nella prima indagine Angelo Pesenti era un brigadiere, in questa seconda è un maresciallo dei carabinieri: ci sarà una terza indagine con un altro aumento di grado per Pesenti?

«Prima di risponderti, vorrei svelare un segreto. In realtà un maresciallo indagò sui delitti commessi dai fascisti di Semiana: si chiamava Vincenzo Pozzi ed era di stanza a Mede. Io, per motivi di continuità letteraria, gli ho sovrapposto Pesenti, che allo stesso tempo è stato promosso dopo l’uccisione del Biundìn. Per venire alla tua domanda, credo proprio che Pesenti ritornerà in una terza indagine: poi, per ragioni anagrafiche, lo manderemo in pensione…».

Un’ultima domanda: per il prossimo romanzo hai già in mente il periodo storico e il personaggio principale?

«Vorrei ambientarlo negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale, fra Lomellina e Oltrepò Pavese, sulle cui montagne si combatté la guerra di Liberazione. Sinceramente non so ancora chi affiancare a Pesenti nel ruolo di protagonista-antagonista: prima dovrò documentarmi al meglio sui testi storici e sui diari dell’epoca».

 Grazie del tempo che ci hai dedicato e arrivederci al tuo prossimo libro.

 Paola Badi

www.giallomania.it

Pubblicato da Umberto De Agostino

Giornalista (quotidiano La Provincia pavese, settimanale Informatore lomellino e dodici periodici comunali) e direttore dell'Ecomuseo del paesaggio lomellino. Già autore per Fratelli Frilli Editori (Il brigante e la mondina, La contessa nera, Manzoni e la spia austriaca).

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